Ormai è senza età, sta tutto in quegli occhi dai riflessi color del cielo che esprimono l’intensità di un bimbo che ancora non parla ma si fa capire. Sono pochissimi i grandi saggi della statura di Peter Brook, uomo che regala la sensazione di essere fortunati a poterlo ascoltare, conoscere, incontrare. A Milano ha presentato, al Piccolo Teatro Studio e solo fino al 25 novembre, “Sizwe Banzi Est Mort”. Gli autori, Athol Fugard, John Kani e Winston Ntshona lo scrissero nel 1972. Ora, Marie Hélène Estienne lo ha riadattato in francese e tutti gli spettatori applaudono con emozione i due interpreti, Habib Dembélé e Pitcho Womba Konga. La storia è piccola, racconta dei problemi dei poveri neri del Sud Africa quando c’era ancora l’apartheid, ma sembra scritta l’altro ieri e potrebbe avere senso in qualsiasi luogo del pianeta. Il che costringe a riflettere, uno dei motivi per cui Brook fa e ama il teatro.
Crede che abbia senso continuare a mostrare gli aspetti negativi della società umana se poi tutto sembra peggiorare, nel mondo?
Se anche il Papa fosse qui adesso, potremmo chiedergli di dirci se tutti sono buoni o cattivi? In qualsiasi luogo esistono espressioni gentili e visibili, sui volti della gente, ma nessuno sa cosa davvero accada all’interno. Compito dell’artista è percepire le correnti emotive che passano, sempre. Talvolta, tutti sono toccati da qualcosa, menti e cuori sono attratti da un soggetto che un attimo dopo è perduto. L’arte del teatro altro non è che essere un po’ più sensibile a questi movimenti. Da almeno 20 anni ci sono cambiamenti continui, molti dovuti allo shock di fronte agli orrori del mondo e, talvolta, qualcosa migliora. Ma altrove, altre cose sono state sommerse, come dalla lava di un vulcano. Ingiustizie sono state compresse per talmente tanto tempo che infine esplodono, come vulcani. Così, a livello globale, tutto cambia, sempre più rapidamente e si direbbe che vada verso il basso, verso la catastrofe.
Allora sembra pure a lei?...
Nella storia delle evoluzioni dei continenti, queste sono state diverse. l’Africa è sempre stata sfruttata, ma forse il cambiamento di tale condizione potrebbe corrispondere al declino dell’Europa. Quando Asia, Cina e Medio Oriente arriveranno allo sviluppo reale, forse si uccideranno tra loro. Certo, sarà prima il turno dell’America Latina a emanciparsi, ma finalmente sarà il turno dell’Africa. Perciò, dovremmo smettere di parlare di globalismo e guardare alle piccole cose. Esistono molte stratificazioni esterne nelle tradizioni, di umanità ed esseri umani che l’Occidente non ha ancora visto né rispettato. Noi dobbiamo accogliere queste culture, che già ora si stanno perdendo per miseria, morte, urbanizzazione. Abbiamo allestito spettacoli di africani che ancora raccontano dell’importanza della tradizione orale, che hanno sacrificato la vita per dire che non ci sono libri o monumenti nella cultura africana, ma il pensiero scorre tra persone, famiglie, civiltà.
E’ facile farsi capire da chi è diverso da noi?
Intanto bisogna evitare di porsi nei confronti degli altri con un senso di superiorità. Il modo migliore è mostrare loro che vivremo un’esperienza di insegnamento per noi. Bisogna sempre rispettare la cultura e le tradizioni altrui e, dopo tante esperienze con attori africani di vari Paesi, abbiamo sviluppato un contatto con l’Africa del Sud, che ha una specificità unica rispetto al continente tutto. C’è una tradizione profonda, legata non solo ai villaggi, rurale come altrove, ma dove la struttura delle grandi città era spersviluppata e legata al mondo dell’Occidente. Johannesburg sembrava Chicago. Così non c’è una relazione tra le epoche storiche ma un avvicinamento stridente. Questa orribile situazione dell’apartheid non era esclusiva del Sud Africa, ma drammatizzava quanto accade in qualsiasi parte del mondo. Gli attori africani recitavano non per un gran pubblico ma per bisogno, per fare in modo che quanto era nascosto apparisse in modo visibile. Usavano solo il corpo, mancando di mezzi.
Sono tanto diversi dai nostri attori?
Tutto il lavoro così difficile che si è svolto in Inghilterra, in Polonia (penso a Grotowski), negli Stati Uniti o in Italia, che è molto intellettuale… Be’, lì accadeva semplicemente, senza conferenze stampa né presentazioni ufficiali. Anche noi lo avevamo creato così, al Theatre de la Buffes du Nord, con soli 2 attori che raccontavano cosa fosse l’apartheid, col corpo solo. E oggi “Sizwe Banzi Est Mort” è un oggetto artistico o culturale da rispettare non come fosse Ibsen, ma perché ha la capcità di raccontare cose durissime con humour. E’ un’opera carica di enregia vitale e racconta la via della sopravvivenza per noi e per gli altri esseri umani. Perché c’è tutto, in questo teatro, tranne l’odio. Vivere senza identità, senza documenti, non tocca più solo un piccolo territorio, ma è ovunque e rende la vita di moltissime pesone, in moltissimi luoghi, qualcosa di scadente. Per questo abbiamo sentito il dovere di metterlo in scena ora.
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